Ero quella bambina che tanto carina e tanto quieta se ne stava. La bambolina di mammà, la principessina di papà, la soddisfazione della nonna e il cestino dell’invidia di chi ci conosceva. Quella che volentieri veniva invitata a casa perché non mettevo tanto casino intorno, l’amichetta che le mamme impostavano alle loro figlie, che di nascosto mi facevano le linguacce ed io rispondevo con un’espressione confusa.
Come tutti i bambini, mi piaceva chiedere il perché delle cose. Però spesso non lo chiedevo a nessuno se non a me stessa, e cercavo di trovarmi da sola una risposta reale e sensata. “Perché la sedia dondola?”, e mi mettevo lì a studiare la situazione. Capitava che alcune cose non potevo spiegarmele, e per un fatto suppongo di infantile orgoglio chiedevo ma in una forma diversa. Il “perché la luna ci sta seguendo?” lo trasformavo in “la luna ci sta seguendo o stiamo camminando insieme?”.
Mi divertivo a praticare superpoteri, sempre scelti con modestia, tipo la telecinesi - roba semplice, un po’ alla Massimo Troisi e il suo “vieni, vieni!” -, il convincere le persone a fare qualcosa come “grattati la testa”, indovinare se la televisione era accesa oppure no. Il mio preferito, però, era quello di fissare il viso delle persone, soprattutto quelle che mi piacevano poco e quelle che mi piacevano tanto, ed entrando in uno stato di inconscio quelle persone si trasformavano, cambiavano faccia. Alcune si facevano più belle, altre si facevano più brutte. Peccato che ad un certo punto, solitamente sul più bello, venivo svegliata e tutto tornava com’era.
Arrivata alle medie, già pensavo al futuro e a quale percorso di superiori mi sarebbe piaciuto frequentare. Ma tre anni non sono bastati, e alla fine, come al solito, ho lasciato vincere chi ho sempre voluto accontentare. Ovviamente era la scelta sbagliata, e dopo sette faticati anni ho capito che per una come me l’università sarebbe stata l’ennesima tortura perché non riesco a collocarmi definitivamente da nessuna parte. Uno dei percorsi di studio in cui sarei stata brava sarebbe stato sociologia. Avrei potuto rispondere a delle domande che una bambina non avrebbe mai dovuto porsi.
Ho un debole per i dettagli, che secondo me dicono assai di più di tutto il resto. Le piccole cose, che possono essere la causa o la conseguenza di quelle grandi. Dettagli che vengono dimenticati come se non rafforzassero tutto il contesto. Dettagli che vengono messi da parte come se non spiegassero quello che succede. Dettagli che non vengono notati perché tendiamo a non far caso alle cose, soprattutto se sono cose a caso. Dettagli che mi fanno chiedere “perché?”.
Il femminicidio di Martina Carbonaro mi ha fatto riflettere sull’identità di noi donne sin da quando nasciamo, e con identità parlo di percorsi di vita che, ovviamente, col tempo sono stati definiti ed hanno un nome. Dove la collochiamo Martina? Era una bambina, una ragazza o una donna? Resta che è morta per mano del suo ex per un abbraccio rifiutato.
E nell’indecisione - che si sente anche in Borrelli nell’ennesimo falso avvicinamento alla famiglia in questo periodo così brutto della loro vita - mi sono ricordata di questo video: le bambine che alla loro comunione vengono trattate e vestite da spose. “Perché non c’è l’aspettativa di un futuro e preferiscono far fare tutto già adesso” dice quella che vende abiti per le spose bambine e che certamente non farebbe lo stesso con le sue, e quindi tanti auguri!
Ma qual è il messaggio che arriva a queste bambine? Qualcuno se lo chiede mai? Qualcuno se ne preoccupa mai?
E questo video è stato pubblicato otto anni fa e parla solo ed esclusivamente della comunione, ma bambine che giocano a fare le donne le possiamo vedere ormai tutti i giorni.
Non ci sarebbe indecisione se tutto questo non venisse permesso.
Un’altra cosa che ho notato è il ripetere in continuazione “mia figlia”, quando il nome della bambina viene detto sin da subito dalla giornalista. Una cosa che ho notato anche in un altro video:
Alla fine, i figli in generale sono i giochi per genitori che non sono cresciuti, e la loro comunicazione dice più su di loro che sui loro figli. Figli che all’improvviso non hanno un nome e sono “mio figlio” e “mia figlia”, magari accompagnato da una mano sul petto. Un altro tipo di narcisismo, che non viene notato perché la patente per diventare genitori o un assistente sociale sin dalla gravidanza non si vedranno mai. A qualcuno pur converrà, tutto questo. Mi chiedo solo a chi.
If you spend too much time defending what you do or telling people that you’re free or being defensive about your freedom obviously you’re not free.
Patti dice che se ripeti troppo di essere libero allora non sei libero. E sono d’accordo.
E’ un dettaglio che non si nota in chi passa la maggior parte della sua vita a voler difendere qualcosa - a volte viene chiamato attivista, altre volte uno di sinistra, altre volte comunista, altre volte femminista -, eppure dice tanto.
Molto spesso esprimersi troppo e definire la propria posizione ci porta alla postazione sbagliata.
Ho letto questa nota oggi e la riporto qui, perché mi ha fatto sia ridere sia riflettere. E alla fine mi ha pure dato ragione.
Una canzone ed un video musicale bannati negli Stati Uniti sono stati quelli che una vecchia amica virtuale mi ha fatto ricordare ieri sera.
“Grazie, stasera mi hai fatto piangere” le ho scritto, esprimendo anche il mio disaccordo alla sua affermazione che sapeva di “pick-me”-ismo mascherato da femminismo. Le avrei anche confessato che non mi piace il modo in cui si sta mostrando sui social negli ultimi tempi perché attira solo la percentuale di uomini che lei odia e non vuole, ma hey io sono una donna e posso solo sostenere un’altra donna. Ipocrisia mascherata da sorellanza, che cosa si fa pur di non essere quella pesante perché alla fine è solo un semplice dettaglio, passa avanti.
Passo avanti e mi ricordo di quanto lacrimavo anni fa ascoltando questa canzone, chiusa in cameretta. Quei pianti che fai come io scrivo questo articolo: un pianto a caso, che non ha un motivo preciso ma c’è ed è buono che ci sia (aiuta a non piangere in pubblico).
Però ero probabilmente ancora troppo piccola ed affamata di arte, perché il video e il testo non li vedevo come li ho visti ora.
Un femminicidio non si merita una canzone così bella.
E restiamo in tema femminicidio.
Vi ricordate di Giulia Tramontano? Io me la ricordo bene, e non la dimenticherò facilmente.
Come seppi della sua morte, pensai e sperai solo in una cosa: giustizia anche per suo figlio, Thiago. Ed io sapevo già in cuor mio - che è un posto strano - che i pro-vita non si sarebbero né visti e né sentiti. Infatti così è stato, o almeno non quanto bastava.
Nel paese dove fare un aborto diventa sempre più difficile, un bambino formato e con un nome non è stato giustiziato. Mai “lo sapevo già” mi suonò più amaro e triste dirlo. L’assassino di Giulia e Thiago paga per l’omicidio di una sola persona. E allora io e Fran Lebowitz pensiamo giusto:
A loro non importa dei bambini, a loro importa solo delle donne e dei loro diritti.
E’ il mese del pride e per trenta giorni ci sarà sempre l’arcobaleno, ed io ne approfitto per dirvi una cosa.
E’ una della comunità a dirvelo: vi hanno voluto confondere e ci sono riusciti.
Non confondere un periodo in cui ti stai conoscendo in un periodo in cui puoi affermare i tuoi pronomi. Non confondere un periodo di disorientamento in un periodo in cui prendi posizione.
Quello che fai dev’essere per te e basta. Non hai niente da dimostrare a nessuno, nemmeno alla tua comunità - che sarà la prima a criticarti, ricordalo.
Datti tempo, e se ti ho confuso vuol dire che hai capito cosa voglio dire.
Le persone hanno sempre meno pazienza e sono sempre più cattive.
C’è chi dà la colpa alle droghe, chi dà la colpa ai telefoni, chi dà la colpa a Dio che si è scocciato e ce la sta facendo pagare.
Ci mettiamo alla ricerca del colpevole perché ci toglie un peso da dentro, ma in realtà dovremmo chiederci perché. Una risposta più o meno me la sono data, e credo che stiamo iniziando a vedere il risultato di ciò che è stato seminato a partire circa negli anni ‘30.
Se un albero produce frutti malati, si dà la colpa a Dio o si cerca di capire che problema ha l’albero? Se un figlio accoltella il padre si dà la colpa ai telefoni o si cerca di capire che insegnamenti ha avuto e in quale contesto (familiare, storico e sociale) è cresciuto? Se un’altra donna viene uccisa dal suo fidanzato si dà la colpa alle droghe o dev’essere per forza il patriarcato?
Non abbiamo mai voglia di metterci in discussione. Non abbiamo mai voglia di riconoscere le nostre azioni, che possono essere semplicemente dettagli. Quei famosi dettagli che nessuno nota eppure fanno tanto rumore, e che dicono tutto.
Sappiamo dire “guarda caso”, ma non lo guardiamo e studiamo mai, il caso.
E si perde tra le cose a caso.
Sono così contenta che qualcun altro ne parli! "Ma qual è il messaggio che arriva a queste bambine? Qualcuno se lo chiede mai? Qualcuno se ne preoccupa mai?" No, perché chi dovrebbe aiutarle e sostenerle non fa altro che pretendere da loro che crescano in fretta, e lo fanno sia i genitori che non vogliono più averne la responsabilità, che la società che vuole accollare loro dei ruoli utili e perfino chi le difende pretendendo per loro una libertà assoluta che non solo non serve ma da loro delle responsabilità pesanti che non è giusto imporre. "Sei una donna ormai" non è un complimento, è una mutilazione. Hanno il diritto di aspettarsi protezione, il diritto di avere ancora qualcuno fra se stesse ed il mondo, un diritto all'infanzia e alla spensieratezza senza quella crescita forzata che viene mostrata loro come tanto allettante, come un dono, come una grande libertà, come una conquista ma che le richiude solo in altre gabbie. è brutto, triste e irresponsabile.