Decidere di andare in posti del genere è come buttarsi nel fuoco di propria iniziativa. Ci pensi, posticipi la decisione; ci ripensi, ti dai ancora un po’ di tempo e vedi come procede; ci ripensi, non puoi più posticipare: forse è meglio buttarsi nel fuoco.
Sono sei anni che ho immagini impresse nella mia mente, incancellabili. Piccoli, medi o grandi traumi che non potrò mai risolvere, soprattutto se poi mi giro ed ho il sorriso di mio figlio che mi riscalda e manda via tutti i cattivi ricordi. Ma sono anche sei anni in cui affermo che un giorno intero trascorso in ogni reparto di un ospedale pediatrico potrebbe rendere migliori le persone. Partendo dal pronto soccorso.
Quattro mura colorate, una reception affannata, gente in attesa che tutto vorrebbe tranne che attendere; e mentre attendi, vedi entrare chiunque. Ognuno ha il suo problema, ed ognuno ha il suo numero ed il suo colore. “Lo facciamo per ragioni di privacy, signore. Lei lo sa che vicino al numero, sul televisore, dovremmo mettere anche un quadratino argentato per i pazienti che hanno disabilità, e quindi dovrebbero avere la precedenza? Eppure non lo facciamo, sia per privacy e sia perché sappiamo bene che se siete qua avete tutti un problema urgente”, dice una guardia ad un genitore che voleva capire quanto tempo ancora doveva aspettare.
L’ospedale pediatrico è un posto tridimensionale. Esci, dopo che hai assorbito tutto quello che hai visto, e ti chiedi com’è possibile che tutti vivano la loro vita come se niente fosse. C’è chi mangia cornetti caldi proprio fuori all’ospedale e chi si sta recando ai baretti. C’è chi non si ferma alla vista di pedoni sulle strisce pedonali e se la prende pure con loro.
Noi invece ci sentiamo in un limbo, una sorta di jet lag. Arrabbiarsi con uno per aver sorpassato a destra diventa impossibile. Litigare per chi ha la precedenza è impensabile. Fermarsi a fare un paio di pizze prima di tornare equivale ad una mancanza di rispetto verso i bambini che hai visto correre dentro quelle quattro mura mezz’ora prima.
L’ospedale pediatrico, sei anni fa, mi ha resa ancora più umile. Ed è un posto che evito il più possibile perché è sempre una fitta al cuore.
Ma se l’arrangiarsi dei bambini mi stupisce e mi dà speranza, dall’altra parte resto sempre affascinata dai loro genitori. Ci sono quelli che hanno un problema che non è del tutto personale, eppure hanno meno pazienza dei loro figli che trovano svariati modi per giocare. Ci sono quelli che, umilmente, fanno passare avanti casi più gravi dei loro e ti trovi costretto a spingerli alla reception perché lì sai quando entri ma non sai mai quando esci. Ci sono quelli che credono che il mondo sia fatto unicamente per loro e non fanno altro che sbraitare, lamentarsi, andare avanti e indietro parlando da soli alla ricerca di qualcuno che gli dica “hai ragione”. Ci sono quelli che hanno una pazienza infinita e una calma da invidiare, ed hanno un figlio con un caso assai più urgente di quelli che sbraitano. Ci sono quelli che non sono del posto e la loro confusione si legge in faccia. Ci sono quelli che vedi di sfuggita perché hanno un codice rosso, e l’unica cosa che puoi fare è vedere quale numero e box è capitato a loro - come il numero 284, box pediatria, di ieri sera: una bambina con la sindrome di Pfeiffer, alla quale ho dedicato e dedico tutti i miei buoni pensieri, ma purtroppo lei è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché mi ha portata dritta a sei anni fa.
Condividere un dolore, a volte, è la cosa che più può alleviare il nostro. Inevitabilmente ti trovi davanti ad una bilancia e all’improvviso vedi che il tuo problema non è poi così grave. Se poco prima ti ritenevi sfortunata e vedevi tutto nero, dal nulla ti senti così fortunata e vedi luci sparse di qua e di là.
Sei anni fa non ero pronta a tutto quello che stava succedendo, ed avevo una forza e un senso dell’umorismo che forse spaventava chiunque mi sentisse parlare. Magari qualcuno di loro sapeva che era il mio modo di affrontare la situazione, e con una pacca dietro alla schiena mi diceva “menomale che hai la forza di scherzare”, e inconsciamente sapevo che faceva bene anche a loro.
Eravamo nella terapia intensiva neonatale. C’erano casi e storie di ogni genere. Un silenzio che metteva pace ed ansia allo stesso tempo, una sensazione che proprio non so spiegare. Ma prima di questo silenzio, mentre aspettavamo l’ora delle visite, fuori si faceva rumore: forse erano più di cento le persone che, con candele e striscioni, mostravano solidarietà per una bambina sparata per sbaglio fuori ad un negozio durante un agguato; una bambina già operata e già messa fuori pericolo, ma pur sempre vittima innocente della camorra. La mia umiltà, forse, ha iniziato a crescere in quel momento; insieme a lei la mia coscienza si è fatta ancora più grande. Un altro genitore forse sarebbe uscito e avrebbe aggredito quelle persone che avevano un solo sentimento: il senso di colpa - perché il male esiste tutti i giorni e noi tutti i giorni decidiamo di non combatterlo. Ma invece le mie preghiere si fecero più grandi per tutti gli altri bambini che erano lì e non ricevevano pensieri e sensibilità da quel centinaio di persone lì fuori.
Uscire, ogni volta, un giorno con una speranza in meno e un altro con una speranza in più, e passare davanti a quel striscione attaccato al cancello con sù scritto “non è giusto!” mi faceva sospirare forte, sospiri pieni di abbracci verso coloro che erano soli e la speranza l’avevano persa.
No, non era giusto che durante quell’agguato venisse sparata una bambina. Come non era giusto che un bambino prematuro, ma prematuro assai, lungo quanto la tastiera su cui sto scrivendo, abbia visto come un’unica luce quella bianca, atrofizzante, della terapia intensiva, prima di spegnersi per sempre. E i suoi genitori, che erano arrivati in Italia con tanti bei ricordi da raccontare, se ne sono andati con una brutta storia che non vorrebbero condividere.
In questo momento mi rendo conto che non posso continuare a scrivere, sennò mi troverei a smontare un cassetto intero in cui tengo dentro questi ricordi di sei anni fa, e non me lo posso permettere.
Il motivo di questa newsletter è uno in particolare.
Ieri sera, al pronto soccorso, straripavano gli avvisi sul rispetto verso coloro che lavoravano lì. Poche erano le indicazioni su come comportarsi, quali percorsi seguire verso i vari box, ma si urlava dappertutto “aggredirci non ci aiuta ad aiutarci”, con foto del prima e dopo un’aggressione ricevuta.
Non state ad ascoltare le storie di quelli che sono stati in posti del genere di passaggio, ma ascoltate storie di persone con esperienze come la mia.
In questo posto - l’ospedale pediatrico, se non si fosse capito - c’è tantissima gente che lavora non bene, ma in modo eccellente, considerate le condizioni in cui si trovano.
Il problema non sono loro, ma il governo che non dedica abbastanza fondi agli ospedali pediatrici. Il problema non sono loro, ma il governo che non dedica abbastanza attenzioni in un posto in cui i dipendenti dedicano ogni sforzo a tutti i bambini, arrivando stremati a fine turno - se lo vedono.
Quindi vorrei lasciarvi il sito in cui è possibile fare una donazione al 5x1000 al Santobono Pausilipon, che non è un ospedale qualsiasi, ma “l’ospedale pediatrico più grande del mezzogiorno” - parole prese da loro.
E se pure in questo caso dobbiamo dividerci in continenti e nazionalità, allora vorrei pure ricordarvi che è inutile preoccuparsi di tanti altri bambini se non si dedicano attenzioni ai bambini più vicini a noi.
Dire “restiamo umani” non mi viene più facile come prima. Ma è arrivato davvero il momento di diventare umani, e restarlo per sempre.
Grazie mille se hai letto fino a qui. E’ stata una newsletter scritta di getto, ma che sentivo di dover scrivere - un altro modo mio per poter curare i miei traumi.
“Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quella tempesta, non sarai lo stesso che vi è entrato.”
Haruki Murakami, Kafka sulla Spiaggia